martedì 5 ottobre 2010

Benvenuto, Autunno.

Avevo sei, sette, otto anni: il cielo d’estate era di un blu cosí intenso che non mi ci stava tutto negli occhi, nonostante io spingessi lo sguardo con tutte le mie forze, per farcelo entrare.
Di sera poi, l’aria fresca era bombardata di stelline volanti: migliaia di lucciole a rendere magico ogni momento di gioco nella Via Videtti.

Ogni volta l’arrivo dell’autunno mi coglieva di sorpresa, impreparata, indifesa. E mi infuriavo e mi disperavo nell’assistere all’appassire inesorabile della mia stagione preferita, dei mesi della spensieratezza, delle canotte e dei pomeriggi in piscina.

Crescendo, la rabbia si fu trasformando in nostalgia, e le lucciole tornarono sempre meno numerose fino a scomparire del tutto. Eppure non riuscii mai ad accettare serenamente la ciclica morte dell’estate.

Fino a quest’anno.

L’estate è per i vincenti.
L’estate è per le persone ad alto contrasto: i mezzi toni non si accettano, non sono considerati, sono eliminati.
L’estate di Barcellona, poi, è una notte di San Silvestro lunga tre mesi, in cui ognuno si sente moralmente obbligato a fare qualcosa di stratosferico. Tutti i giorni, tutte le notti. Tre mesi.

La mia estate è trascorsa senza troppa convinzione, senza troppo impegno, come un lungo pomeriggio di domenica passato guardando un film noioso.

E mi sorprende scoprirmi, per la prima volta nella mia vita, comoda e confortevole avvolta dalle prime carezze dell’autunno.

Quest’autunno malinconico, dolce, coccolone, colmo di pigrizia e di grosse tazze di caffelatte a metá mattina. Un autunno senza aspettative, che non pretende di essere il protagonista, che non promette niente e per questo non puó deludere. Un autunno trasparente come lo sbuffo del vento che mi sorprende sul lungomare del Forum e quasi mi fa perdere l’equilibrio mentre arrivo in bici al lavoro, tardi anche oggi. Un autunno che si sporge tra le pieghe delle sciarpette di seta che le ragazze indossano per uscire a fare shopping lungo Rambla Catalunya, che si affaccia dalle finestre giá chiuse del Poble Nou, che si lascia intravedere tra le foglie degli alberi della Diagonal, ancora verdi, ma che sanno giá di declino.

Un autunno acciaccato come la schiena curva di una vecchia, le mani rugose di chi non è mai stato fermo, il volto delicato di luce, gli occhi sorridenti di chi non si preoccupa piú, ormai, di fare progetti per il futuro.

Un autunno che non sta in attesa, che non ci crede piú, che non gli interessa nemmeno.

Tirare fuori i calzini di cotone e il pull-over. Comprare un barattolo di miele per il te al gelsomino del pomeriggio. L’uva. La prima copertina di pile appoggiata distrattamente sopra le lenzuola. La pioggia. Monotona, ritmica.
Accettare i propri limiti, accettare che siamo umani e imperfetti, che possiamo crollare, che non siamo invincibili. Che siamo soli.

L’estate è una stagione sfacciata e gradassa, opulenta, superba. Presuntuosa e arrogante.

Io ringrazio l’arrivo dell’autunno e lo benedico, autunno morbido e paziente, grigio e silenzioso, autunno profumato di fine, autunno che mi abbraccia, che mi culla, che mi consola.